ANDREA BONVENTRE

Space Traveller

Le informazioni tra viaggiatori sono confuse. “Hanno bloccato la frontiera” , “forse ci sarà la quarantena per tutti.”
L’unica sarà verificare di persona.
Sono a 80km dalla terra di nessuno e 85 km dalla Mauritania.
Da giorni quando dico che sono italiano le reazioni si dividono tra preoccupazione e empatia.
Da settimane vengo ospitato ovunque, il pasto viene servito in un unico piatto, si mangia insieme, rigorosamente con le mani.
Sono impacciato, mi scotto spesso.
“Hanno cancellato tutti i voli verso l’Italia”.
Che strana sensazione. Che diavolo sta succedendo.
Il deserto è pagina bianca. Si riempe di quel che ho dentro, l’amplifica….

Post Facebook, 13 Marzo 2020

SINOSSI

Non avrei scritto nulla di questa storia, o forse poche righe, se gli eventi non mi avessero spinto a farlo. Il mio psicologo dice che tendo all’idealizzazione, che porta inevitabilmente alla delusione e dopo aver raggiunto questo punto entro in un’orbita d’irrimediabile allontanamento. E’ un mio schema di sopravvivenza sebbene costi energia e dolore. Che strana ironia, pagato per fotografare le persone ho bisogno di pagare qualcuno che fotografi me, al mio interno, un cartografo che mi consegni una mappa per uscire dalla confusione. Ma per capire meglio il panorama mentale che spinse me a spingere dei pedali per attraversare il deserto bisognerà leggere l’intero racconto, che è fatto di sabbia e di stelle, e un oceano sulla destra a darmi la direzione. Semplice gioia senza motivo fioriva spontanea su quel graffio d’asfalto, appena visibile dal satellite, pochi pixel di grigio tra distese azzurre e gialle. Il Sahara soffiava il suo respiro a favore, verso sud, i popoli che da secoli abitano quelle terre avevano da insegnare fantastici espedienti per proteggersi da un clima in cui la nostra razionalità fatica a capire come sia possibile anche solo pensare di viverci e che forse per la stessa ragione custodiva ancora un’intelligenza e una sapienza antica. A piedi, in direzione opposta viaggiava chi cercava un tesoro nelle terre da cui provengo e in cui vivo, un passo alla volta verso il mare che non è spiaggia ma frontiera. Avevano una bottiglia di plastica in mano, l’alzavano quand’era vuota, e sempre una macchina si fermava per dare rifornimento necessario. Youssef era, come tutti da quelle parti, solenne nel preparare il thé, gesti lenti e precisi, regolava la fiamma del suo fornello a gas in modo che fosse sempre al punto giusto, mai troppo alta. “E’ questo il vostro problema capisci? Fate tutto velocemente, volete tutto subito” con la bocca emette i suoni del fornello quando è al massimo della potenza. I coloni francesi avevano lasciato in eredità una lingua con cui poter comunicare e i vocaboli che sceglievano racchiudevano una filosofia di vita, una maniera di stare al mondo. “Il faut faire doucement!”. Doucement, è una delle parole che sentirò più spesso, vuol dire lentamente ma anche delicatamente, con dolcezza. All’interno della piccola teiera di alluminio smaltato mette un cespuglio di menta e una buona dose di zucchero, poi aspetta e versa il thé disegnando una alta linea fumante che unisce il bicchiere al beccuccio. Su e giù, su e giù. Poi prende il bicchiere e con la stessa sicurezza svuota il contenuto in un altro bicchiere e ripete l’operazione più volte fino a creare una densa schiuma bianca. “Sai che cos’è questa?”. L’avevo visto fare più volte e abbozzo una risposta. “Tradizione? Serve per bellezza?” “No. I popoli del deserto servivano il thé con la schiuma per proteggerlo dalla sabbia, potevano rimuovere il primo strato e bere il contenuto senza problemi. C’est un filtre à Sable!” Non ho trovato da nessun altra parte questa spiegazione ma io di Youssef mi fido. E mi sembrò una bella metafora, laddove gli elementi erano così forti e ostili l’umanità si generava naturalmente, come involontaria risposta a un ambiente in cui da soli non può sopravvivere. L’umanità era il Filtre à Sable, che proteggeva dalle sabbie sottili e fastidiose di quella vita.

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